La “crisi” dei microprocessori: tecnologia e microchip un indissolubile binomio

Il cordone ombelicale che unisce la comodità alla tecnologia è il microchip ed oggi, nella situazione particolare che stiamo attraversando, è sempre più a rischio questo legame.

Partiamo col spiegare che cos’è un microchip e a cosa serve. Ormai nella vita di tutti i giorni, inconsapevolmente, veniamo a contatto con oggetti tecnologici nei quali è contenuto un microprocessore; e d’altronde non c’è di cui stupirsi sul significato del nome in quanto questi circuiti sono grandi – o per così dire piccoli – meno di una monetina da un centesimo.

Smartphone, accessori in cucina, computer, tablet, televisori fino ad arrivare alle automobili sono forniti di uno o più microchip che si rendono necessari per il perfetto funzionamento di tutti questi apparecchi.

La cosa più sorprendente è che questi micro francobolli sono composti da milioni di componenti ancor più piccoli tutti concentrati in uno spazio quasi insignificante.

Ho avuto a che fare con la tecnologia informatica per la prima volta dalla prima metà degli anni Novanta, quando ancora si parlava poco di questi apparecchi e piuttosto si preferiva discutere dei chip meglio conosciuti come circuiti integrati.

Il primissimo circuito integrato risale al 1949 attribuito al fisico tedesco Warner Jacobi che però aveva una dimensione “importante” (giusto per farsi un’idea un chip poteva essere grande un foglio di dimensioni A3 n.d.r.).

Il primissimo microchip venne inventato alla fine degli anni Settanta da un italiano e più precisamente dal vicentino, naturalizzato poi americano, Federico Faggin che studiò tra l’altro anche all’Università degli Studi di Padova.

L’utilizzo massivo del microchip del fisico vicentino risale però verso la fine degli anni Ottanta con una esplosione e larga diffusione dieci anni più tardi.

 

Oggi si parla di crisi del microchip ed a pagarne le conseguenze sono in primis le case automobilistiche che in molte circostanze hanno dovuto riscrivere i loro programmi di produzione per la carenza di componentistiche.

Per parlare ancora più semplicemente dobbiamo comparare un microchip al cervello di una persona: oggi questa tecnologia è in grado di gestire in perfetta autonomia un qualsiasi apparecchio tecnologico compresi computer, smartphone, frigoriferi, impianti casalinghi, forni e orologi sportivi e senza di essa tutto risulterebbe molto complicato.

Come un cervello ha necessità di avere neuroni per “funzionare” un microchip necessita di silicio, uno dei materiali utilizzati nel substrato dell’apparecchio che, lavorato in una certa maniera, permette di concentrare tantissime componentistiche in uno spazio davvero ridotto.

 

Ma perché questa crisi? Tutto nasce da una scarsa produzione di questo indispensabile bene durante il primo ed il secondo lockdown dell’attuale periodo pandemico che ha creato una reazione a catena senza precedenti.

L’estrazione del silicio, già costosa in generale, ha aumentato di molto il valore della manodopera facendo slittare il prezzo finale del componente finito.

Con tutta questa carenza di produzione i produttori grandi colossi del mercato del microchip hanno fatto a gara per accaparrarsi in prima possibile le forniture lasciando a bocca asciutta molte altre aziende internazionali.

È così che i pochi beneficiari hanno potuto alzare le pretese di mercato impostando i prezzi alle stelle e garantendo solo “piccole dosi” di prodotto per una nicchia che oggi continua a produrre ed a fornire gli acquirenti, quest’ultimi costretti a sborsare cifre importanti per acquistare un qualsiasi apparecchio tecnologico di ultima generazione.

 

Oltre all’automotive quali sono i settori più colpiti?

Oltre la già citata informatica – che racchiude un’enormità di micro settori che stanno rischiando grosso – ci sono diverse realtà complementari sull’orlo del precipizio.

In sostanza, tutta la tecnologia che prevede una certa “unità di calcolo” sopratutto per progetti che rientreranno in questa categoria, rischiano di non vedere mai luce.

All’interno di questi microprocessori, oltre alle componentistiche “fisiche” insiste un software (un programma n.d.r.) che costituisce una memoria interna e una unità logico-matematica che effettua un definito numero di operazioni seguendo un certo ordine di istruzioni.

La carenza dei microchip colpisce anche il settore delle telecomunicazioni;

sono per gli smartphone ci sono due tipologie di microprocessore, il primo fa funzionare il sistema operativo alla base di tutto il programma e riguarda la “parte informatica”, ed il secondo si occupa di che invece permette di effettuare la connessione in radiocomunicazione e che quindi permette di connettere un telefono ad un altro o, meglio, una connessione internet al Web attraverso – per esempio – la rete wi-fi. 

Lo stesso ricade per gli accessori telefonici come un auricolare bluetooth per il quale bisognerebbe dedicare solo un capitolo a parte.

 

Altro settore in crisi è quello della produzione dei microcontrollori, apparecchi presenti in svariate categorie elettroniche: chiavette Usb, elettrodomestici generici, nelle automobili, nei programmi di cottura dei forni, nelle centraline di controllo della domotica domestica, ecc.

A chiudere il cerchio delle categorie maggiormente colpite – e sarebbero davvero molte altre – rientra anche lo sviluppo di nuove tecnologie che stanno invadendo il mondo: l’intelligenza artificiale.

Tecnologia costituita da microchip di ultima generazione sono in grado di fare in autonomia il riconoscimento di una immagine, di trasmetterla in tridimensione o far vivere un’esperienza visiva ad altissimo coinvolgimento emotivo… peccato che, ad oggi, tutto questo troverà poco spazio nel mercato a causa della carenza di componentistiche.

 

Non voglio farne un dramma, ci mancherebbe, ed anzi sono certi che con la ripresa tutto si sistemerà e, piano piano, anche l’economia del microchip tornerà a prezzi per lo meno ragionevoli.

 

Matteo Venturini